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mercoledì 11 dicembre 2013

Dopo minacce Riina, Pm di Matteo non va in aula

Oggi all'udienza sulla trattativa Stato-mafia, che si tiene a Milano, depone il pentito Giovanni Brusca
 
MILANO- Dopo l'ultimo allarme legato alle nuove minacce lanciate dal boss Totò Riina il pm Nino Di Matteo ha deciso di non partecipare all'udienza sulla trattativa Stato-mafia che si svolge oggi a Milano. E' prevista la deposizione del pentito Giovanni Brusca.
Il nuovo allarme risale a venerdì scorso, quando la Dia, che sta ascoltando ore di conversazioni registrate di Riina, capta una frase molto allarmante che riguarda proprio Di Matteo. Le parole del boss fanno pensare che il progetto di attentato al magistrato sia giunto a una fase esecutiva. La notizia viene comunicata subito alle Procure di Palermo e Caltanissetta, che indaga sulle intimidazioni al pm. Sabato i vertici degli uffici giudiziari nisseni e
palermitani si riuniscono e decidono di rivolgersi al ministro dell'Interno Angelino Alfano che li riceve domenica. Come prevede la legge in casi eccezionali, i magistrati consegnano al ministro le intercettazioni di Riina: il codice di procedura penale stabilisce infatti che l'autorità giudiziaria possa trasmettere copie di atti di procedimenti penali e informazioni al ministro dell'Interno ritenute indispensabili per la prevenzione di delitti per cui è obbligatorio l'arresto in flagranza. Nella frase sentita venerdì Riina, che in un'altra conversazione aveva anche detto al boss della Sacra Corona Unita riferendosi a Di Matteo "tanto deve venire al processo", non farebbe riferimenti specifici a Milano. Ma la trasferta nel capoluogo lombardo è stata organizzata ed è nota da settimane, quindi ci sarebbe stato tutto il tempo di mettere in piedi eventuali atti intimidatori. Inoltre le condizioni di sicurezza dell'aula bunker non sarebbero ritenute ottimali. Di Matteo è già sottoposto a protezioni di "livello 1 eccezionale": nell'ultimo Comitato Nazionale per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica che si è svolto a Palermo alla presenza di Alfano, si è discusso anche di potenziare la vigilanza attraverso spostamenti in un Lince blindato e dotando la scorta del pm del bomb jammer, un dispositivo che neutralizza congegni usati per azionare esplosivi. Solo domattina sarà comunque possibile sapere se Di Matteo parteciperà all'udienza a cui saranno presenti sicuramente il procuratore Francesco Messineo, l'aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene
Brusca, nel '91 Riina disse devono morire tutti  - "Nel corso di una riunione, nel '91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse 'gli dobbiamo rompere le corna'. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore". Lo ha raccontato il pentito Giovanni Brusca che sta deponendo, nell'aula bunker di Milano, al processo sulla trattativa Stato-mafia. Mentre Falcone e Borsellino andavano eliminati in quanto nemici dei clan, secondo Brusca i politici come l'eurodeputato Salvo Lima e l'ex ministro Calogero Mannino, dovevano pagare il non avere fatto gli interessi di Cosa nostra. "Mannino, ad esempio - ha detto - doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l'omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l'ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini". "Si parlò anche di Andreotti - ha spiegato - ma non nel senso di ammazzarlo, bensì di non farlo diventare presidente della Repubblica. Politicamente c'era tutta la volontà di metterlo in difficoltà". "Per l'eliminazione di Martelli, invece, che era concreta - ha proseguito - facemmo dei piani veri. Mandai degli uomini a studiarne le mosse". Brusca ha negato che si fosse mai parlato, invece, della volontà di ammazzare l'ex ministro Dc Vincenzo Scotti. "La priorità degli omicidi - ha spiegato - la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima".
"Da adolescente portavo i viveri al latitante Leoluca Bagarella, poi la mia partecipazione in Cosa nostra è stato sempre un crescendo. Sono stato affiliato formalmente nel '75 prima dell'omicidio del colonnello Russo al quale ho partecipato. La mia 'combinazione' ha seguito le regole tradizionali del rito dell'affiliazione: hanno bruciato la santina, Riina mi ha punto il dito. Lui era il mio padrino. Mi hanno insegnato che prima veniva Cosa nostra, poi il resto. Io questa regola l'ho seguita". Comincia raccontando la sua carriera criminale Giovanni Brusca, il pentito che sta deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia in trasferta a Milano proprio per la testimonianza al dibattimento del collaboratore di giustizia. Brusca è teste, ma anche imputato nel procedimento in cui è accusato di minaccia a corpo politico dello Stato. Stessa imputazione per gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, per i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e l'ex politico Marcello Dell'Utri. Risponde invece di falsa testimonianza l'ex ministro Dc Nicola Mancino, mentre Massimo Ciancimino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il pentito sta parlando della gestione di Cosa nostra da parte di Riina e del ruolo del boss Bernardo Provenzano. "Perseguivano obiettivi comuni", ha detto riferendosi alla guerra di mafia e all'eliminazione dei nemici di Cosa nostra.
 
 
 
 
ANSA
 

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