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martedì 15 gennaio 2013

LU VARDUNARU E LU CARRITTERI

 
                                  LU VARDUNARU E LU CARRITTERI
 


Per la mancanza di strade sterrate o asfaltate, la comparsa del carretto siciliano avvenne ai primi del 1800.
Prima di tale data il trasporto merci e passeggeri in Sicilia avveniva solo via mare con grosse barche come la Tartana e la Feluca.
Per i percorsi terrestri, a breve distanza, i trasporti avvenivano a dorso di muli o cavalli percorrendo le mulattiere.
Questo servizio era svolto dai “vardunara” (mulattieri). Infatti, tutta la merce arrivata al porto e
diretta al retroterra, o viceversa, avveniva necessariamente a dorso di muli. I grandi proprietari terrieri ne avevano sempre numerosi al proprio servizio. Così, durante la raccolta dei prodotti agricoli, s’incontravano delle vere carovane di muli con i prodotti sulla groppa.
Ogni “vardunaru” conduce una “retina” composta di sette muli legati in fila uno con l’altro. Egli, come “capu retina” cavalca la prima mula, che doveva avere un carattere più mite e di struttura robusta, poiché doveva portare sulla groppa anche della mercanzia.
Sempre sulle mulattiere c’era la possibilità di usare un altro mezzo rudimentale di trasporto: “lu strascinu o straula” (la treggia). Si trattava della più antica forma di carro senza ruote tirato da buoi ed usato nelle zone montuose, per il trasporto dei covoni di grano.
Secondo quanto scrive Nino Ferracane in: “Castelvetrano Palmosa Civitas”, nel 1843 nel nostro territorio esisteva una sola strada carrabile che univa Castelvetrano a Campobello di Mazara. La strada di collegamento con la città di Gibellina (l’odierna SS.119) a quel tempo era in via di costruzione. Per il collegamento con Partanna, Trapani, Mazara, Salemi e per la provincia di Agrigento c’erano soltanto delle mulattiere percorribili a cavallo. Nello stesso tempo c’erano le regie trazzere, in seguito trasformate in strade statali e provinciali, che erano costruite molto larghe (36 mt.) e coperte di manto erboso, per permettere la trasmigrazione del bestiame durante la transumanza. Esse erano utilizzate anche in caso di spostamento di soldatesche. 
Costruite le ferrovie e le strade sterrate o asfaltate, finiva l’era dei vardunara.
In tempi relativamente recenti, 1930 – 1950, per le grandi distanze e per la merce molto voluminosa e pesante, l’unico mezzo di trasporto era la ferrovia; mentre per le distanze fino a 100 Km. circa si usavano ancora mezzi a trazione animale, come "lu carrettu", che potremmo paragonare al furgone d’oggi. Per i trasporti non idonei al carretto, perché relativamente pesanti e voluminosi, c'era "lu traìnu o carramattu" (il carro a quattro ruote), che potremmo paragonarlo al camion; "lu carruzzinu" poteva essere l'automobile, mentre la carrozza con due o più cavalli rappresentava la rolls royce. "Lu carritteri" e "lu gnuri" erano i loro autisti.
“Lu carritteri”, quando doveva fare un lungo viaggio (anche 100 km.) e occorrevano più giorni per arrivare a destinazione, di notte doveva pur albergare da qualche parte; allora erano sorti "li funnachi" (i fondachi, che oggi potrebbero essere i motel), dove trovavano vitto e alloggio carrettiere o viandante e cavallo. Sotto una tettoia c’era sempre posto per il carro o calesse. 
“Lu carritteri” e “lu vardunaru” trattavano il proprio animale come una persona di famiglia, poiché dalla sua forza e salute dipendeva il lavoro e quindi il guadagno; d’altronde il veterinario neanche esisteva o costava molto e con i pochi guadagni di allora, difficilmente si poteva comprare un altro animale. Pensate che per la morte di una "vestia", il padrone teneva in casa una specie di lutto: parenti ed amici intimi andavano a fargli visita, con scene di dolore come per la morte di una persona di famiglia. A conferma di ciò un proverbio siciliano diceva: “A lu riccu ci mori la muggheri, a lu scarsu ci mori lu cavaddu”.
Ho conosciuto dei carrettieri "baggiani" (fanatici, amanti delle cose belle), che tenevano il loro carro sempre in perfetto ordine e pulizia e con le pitture sempre come nuove; il cavallo, ben nutrito e con il pelo pulito e lucido, era ornato con il pennacchio di piume variopinte sulla groppa e sul capo. 
Chi possedeva animali da tiro badava a pulirli giornalmente, con “strigghia e brusca” o li lavava con acqua e sapone.
Il carrettiere portava sempre sul carro la "coffa di la pruvenna" (una cesta conica di palma nana intrecciata) con la "pruvenna" (la biada per l'animale) assicurata “a li stampaneddi”; durante le soste la legava alla testa dell’animale in modo che potesse mangiare. Sistemati "sutta la casciata" (sotto il fondo del carro) c’erano gli attrezzi di lavoro:  la pala e la scopa.
Quando pioveva "a lavina" (pioggia a dirotto che lava), nelle strade di allora, ancora non asfaltate, si formavano "li lavinati" (dei depositi di sabbia molto ricercata per l'edilizia, perché priva d’impurità e di salsedine); il carrettiere la raccoglieva con la pala e la portava al cliente già prenotato.
Durante i lunghi percorsi il carrettiere si dava coraggio e compagnia con dei canti molto caratteristici (i famosi canti del carrettiere), oggi scomparsi inghiottiti dal tempo, assieme alla figura tipica dei loro cantori e a tutta la civiltà contadina.
Si trattava di canti bellissimi nostalgici, melanconici, struggenti d’amore per la donna amata, dove certe vocali erano prolungate fino alla fine del fiato e riprese di nuovo dopo il respiro. Le note avevano la profondità della notte e la tenerezza dell’aurora e della primavera. Tale scomparsa è stata una grave perdita per la cultura musicale in generale e per la nostra terra in particolare. 
Come succede anche oggi per le macchine, il benestante, per farsi notare, teneva il carretto “patrunali” tutto scolpito o dipinto, e la carrozza barocca scolpita. 
Dopo il boom economico iniziato negli anni ’50, attraverso le strade e autostrade asfaltate, il gommato a poco a poco ha assorbito tutto il traffico a trazione animale, ma anche quello ferroviario.
 
VITO MARINO.
 

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