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mercoledì 5 febbraio 2014

Mafia e politica. Parla la difesa di Caravà.Giammarinaro chiama cento testimoni


‘’Ciro Caravà mai è stato formalmente inserito, o meglio ‘punciutu’, nell'associazione mafiosa. La sua vita è stata attraversata da un evento determinante. La perdita di un genitore quando andava a scuola. Nel 1976, ad opera della mafia, fu ucciso lo zio e pochi giorni dopo scomparve il padre’’. E’ quanto ha affermato, in Tribunale, l’avvocato Giuseppe Oddo, difensore dell’ex sindaco di Campobello di Mazara, arrestato nell’operazione antimafia ‘’Campus Belli’’ e per il quale il pm della Dda Pierangelo Padova ha chiesto la condanna a 18 anni di carcere. ‘’Come confermato da Giovanni Brusca – ha proseguito il legale - il padre di Caravà fu vittima perché cercava di capire che fine avesse fatto il fratello. Caravà padre muore in una guerra di mafia, ma non era mafioso. Il padre di Caravà viene trovato due anni dopo in
un lago. Dava fastidio alla mafia’’. Dalle indagini, però, è emerso che il sindaco Caravà intratteneva rapporti con esponenti della locale famiglia mafiosa capeggiata da Leonardo Bonafede, 81 anni, anch’egli imputato assieme a Cataldo La Rosa, di 48 anni, e Simone Mangiaracina, di 76, considerati il “braccio operativo” dell’anziano boss, a Gaspare Lipari, di 46, che avrebbe svolto una funzione di “collegamento” tra il sindaco e il capomafia, ad Antonino Moceri, di 62, e ad Antonio Tancredi, di 53. Gli ultimi due, imprenditori del settore olivicolo, sono accusati di concorso esterno in associazione mafiosa. Lo scorso 16 gennaio, per Mangiaracina il pm Padova ha chiesto la condanna a 20 anni di carcere, mentre 18 anni sono stati invocati per La Rosa, 16 anni per Lipari, 15 anni ciascuno per Moceri e Trancredi e 6 anni per Bonafede. Quest’ultimo, già condannato in passato per associazione mafiosa, è accusato soltanto di intestazione fittizia di beni. Al centro delle indagini, avviate nel 2006, c’e’ uno dei ‘’sodalizi criminali’’ considerato tra i più vicini a Matteo Messina Denaro, capo indiscusso della mafia trapanese e punto di riferimento per l'intera struttura di Cosa Nostra. Secondo gli investigatori, la famiglia mafiosa di Campobello di Mazara avrebbe mantenuto uno stretto collegamento con il 'boss' e, "attraverso un pervasivo controllo del territorio", sarebbe riuscita a "infiltrare progressivamente le attività imprenditoriali ed economiche dell'area". Parti civili nel processo sono il Comune di Campobello di Mazara e le associazioni antiracket di Trapani, Marsala, Mazara e Alcamo e il Centro “Pio La Torre”. Il Tribunale (presidente del collegio Gioacchino Natoli) dovrebbe ritirarsi in camera di consiglio per la sentenza al termine dell’udienza fissata per giovedì 6 febbraio.
GIAMMARINARO. Passa al contrattacco, Pino Giammarinaro. L'ex deputato, oggi al centro di una richiesta di confisca di beni per 35 milioni di euro, nel processo che si tiene davanti al Tribunale delle Misure di Prevenzione di Trapani, oltre a fare dichiarazioni spontanee, nel corso dell'ultima udienza, ha anche affidato ai suoi avvocati, Paolo Paladino e Francesco Marino, la richiesta di ammettere circa cento testimoni. Si tratta di testimonianze documentali, di dichiarazioni già rese ai due legali su fatti specifici. Il pubblico ministero Andrea Tarondo ha chiesto un termine per esaminare gli atti,  e chiesto al Tribunale di acquisire un'ulteriore nota della polizia di Stato. Anche in questo caso è stato chiesto un termine, da parte dei difensori. Entrambe le richieste sono state accolte dai giudici. 
Il Tribunale si pronuncerà nella prossima udienza.

marsala.tp24.it

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