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venerdì 8 febbraio 2013

Lu Cannalivaru di Castelvetrano


Storicamente si tratta di una ricorrenza che risale al 1600 quando, sotto la dominazione spagnola, si praticava il gioco del toro con tre giorni di festa, che in Sicilia si chiamavano “Li sdirri”. All’insegna del chiasso e del grande spasso, un bue veniva legato per le corna
con una lunga e robusta fune, trattenuta al capo da un gruppo di uomini.
Il toro, aizzato dai giocatori con drappi rossi e dalle urla sfrenate del pubblico, messo al sicuro dietro uno steccato, rincorreva minaccioso il giocatore.

Costui quando sentiva di essere raggiunto e di non poter schivare il corpo dell’animale, si salvava scendendo lesto in un fosso scavato precedentemente nel mezzo della piazza.
 Il più bravo dei concorrenti non era solo colui che con movimenti agili e lesti scansava i colpi del toro senza scendere nel rifugio, ma chi invece riusciva a cavalcarlo.
Da tempo questa specie di corrida è stata abbandonata e a memoria d’uomo è ricordato un carnevale fatto di maschere, balli e scherzi.

 Durante la II Guerra Mondiale, la manifestazione era stata sospesa per evidenti motivi; fu il sindaco Simanella, in carica dal 1947 al 1952, durante il suo mandato, a far ritornare questo divertimento popolare.
Gli anni ’50 – 60 forse furono i più ruggenti della storia di questa festa popolare, addirittura veniva gente dai paesi vicini, anche da Palermo, per divertirsi.

 Gli echi della guerra e gli effetti devastanti sugli edifici e sull’economia della città erano ancora visibili ma la gente, finalmente libera dalla dittatura, aspettava con ansia il Carnevale per scrollarsi di dosso gli orrori e i pericoli vissuti, le ristrette condizioni economiche, per dimenticarsi di essere dei miseri mortali e per godersi quegli attimi di spensieratezza e d’allegria, che la festa forniva in maniera collettiva, genuina e gratuita.
Si trattava, infatti, di una povera manifestazione dal punto di vista scenografico ma l’entusiasmo e l’allegria coinvolgeva lo stesso tutta la popolazione. Pochi potevano comprarsi il domino; la maggior parte portava delle maschere improvvisate e povere, fatte con vecchi vestiti riciclati, ma spontanee, che suscitavano allegria e risata; Dopo tanti lunghi secoli, sembrava proprio che tutti rispettassero il “carpe diem” (cogli il giorno) contenuto nei “canti carnascialeschi” di Lorenzo Dei Medici: –
« Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! »
 “Chi vuol esser lieto sia di doman non c’è certezza”.
Le maschere, che raffiguravano personaggi dei vari ceti sociali, erano rappresentate in maniera burlesca, per mettere in evidenza i difetti della società; forse si rifacevano ai “Saturnali”, un ciclo di festività religiose, risalente all’antica Roma, quando l’ordine sociale veniva sovvertito e gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente uomini liberi, e si potevano comportare come tali.

 Tornando alla nostra festa, quando un mascherato incontrava un conoscente, lo spingeva, gli ballava attorno e gli chiedeva: “Cu sugnu?”. Generalmente era una donna che, protetta dall’anonimato si divertiva a stuzzicare un uomo.

 I petardi erano molto usati ma, in una civiltà maschilista erano lanciati in direzione delle donne, procurando spesso bruciature alle calze e alle gambe; la gioia di chi lanciava i botti era quello di sentire le donne gridare per lo spavento. Nelle strade principali si svolgevano delle vere battaglie a base di botti lanciati fra squadre rivali.

 I ragazzi si consolavano con “l’assicuta fimmini” e “li sparapauli”; i secondi erano delle cartine rosse con tanti piccoli rigonfiamenti, contenenti polvere da sparo; bastava picchiarvi sopra un piccolo sasso per farle esplodere. “Li piticchi” (coriandoli) e le stelle filanti c’erano anche allora; molto in voga era “lu fetu” (la puzzolina), a volte buttata in classe dagli alunni, per far sospendere la lezione.
 Molto praticati erano gli scherzi, ma erano accettati senza offesa.
In Sicilia, nel linguaggio parlato, per rafforzare ogni discorso era molto in uso il proverbio. Anche durante il Carnevale si usavano tanti proverbi: uno diceva “Carnevali ogni scherzu vali, cu s’affenni è un maiali”; un altro diceva: “cu è fissa Carnevali o cu ci va appressu?”, un altro: “Pi Sant’Antoniu (17 gennaio) mascari e soni; pi San Bastianu (20 gennaio) mascari ‘n chianu”.

 “Doppu li Tri Re olé olé”, si diceva! E difatti, dopo “li Tri Re” (l’Epifania), già alcune maschere giravano per le strade con le loro voci artefatte riscaldando e preparando l’atmosfera per la grande festa.

 In quei giorni si ballava soltanto in casa di amici “a parti di casa” (presso i privati), “dunni si teni sonu” (dove si suona).
 I cinque giovedì antecedenti al Carnevale erano molto attesi da quegli innamorati che, con i consensi dei rispettivi genitori, avevano le buone intenzioni di fidanzarsi. – Il primo giovedì veniva chiamato “dei vicini”, in quel giorno si organizzavano dei balli in casa della ragazza e fra gli invitati c’era anche il ragazzo pretendente e i rispettivi familiari. – Nel secondo, detto “degli amici”, si ballava di nuovo; ma, se tutto procedeva bene fra le due famiglie, avveniva anche la “spiegazione” cioè l’intesa per un fidanzamento ufficiale. – Il terzo, detto “dei parenti”, oltre a ballare si poteva festeggiare anche l’entrata ufficiale al fidanzamento (si era già parenti).- Nel quarto, detto “delle comari”, i consuoceri diventavano automaticamente anche compari e comari; ormai i due fidanzati potevano stringersi fra le braccia durante il ballo. – Il quinto era il “giovedì grasso”, il più conosciuto e atteso, perché dava inizio alla baldoria di piazza.

 Caso strano, ma in una società maschilista le donne, anche se sposate, in questo giorno, appunto perché grasso potevano permettersi certe libertà, come parlare in maniera poco pulita, fare scherzi agli uomini, ballare con un altro uomo, giocare agli indovinelli e scioglilingua “vastasi”.
In quel periodo, la festa era molto attesa da tutti, anche per fare grandi mangiate. Le carni di maiale e di tacchino, cucinate al ragù con la “sarsa sicca” (vedi argomento), e la “pasta di casa” fatta a “tagghiarini” o “maccarruna busiati” erano i piatti più consumati.

 In merito un proverbio diceva: “Pi cannalivaru si sì manciuni, mancia sosizza e maccarruna”, pietanze invece vietate il giorno di Capodanno (le cose rotonde, compresi cannoli e involtini) perché portavano male. Per portare allegria, il vino si consumava a fiumi.
Ricordo che da quel giorno una gran folla si riversava per le strade vestita in maschera e si divertiva a più non posso con scherzi e balli. Si ballava presso tutti i circoli ricreativi e culturali, ai cinema: Selinus, Capitol, Palme e Marconi, alla sala bigliardi, ma si ballava anche “a lu chianu” (Piazza Garibaldi, piazza per antonomasia), con l’orchestrina che suonava.

 Parallelamente agli amori umili e sinceri dei giovani popolani, che aspettavano il Carnevale per la realizzazione dei propri sogni, c’erano gli amori clandestini fra uomini maturi sposati, con altrettante donne compiacenti che, approfittando dell’anonimato garantito dalla maschera, realizzavano i loro sogni illegittimi.
 Li “sdirri”, forse dal francese dernier, erano gli ultimi tre giorni di Carnevale: “sdirriduminica, sdirrilunniri, sdirrimartiri”; essi rappresentavano il culmine della festa. Un proverbio siciliano dice in merito: “tuttu l’annu cu cu voi e li sdirri cu li toi”.
La festa si concludeva, come avviene ancora oggi, con “lu nannu e la nanna” bruciati “a lu chianu”. Infatti, in Piazza Garibaldi si leggeva “lu tistamentu di lu nannu” e venivano bruciati due fantocci di cartapesta preparati ogni anno, fino al 1967, da “Don Pippinu Vaiana l’apparaturi”.

 Caratteristici erano i piagnistei “di li niputi di lu nannu”. Si trattava di finti lamenti che si rifacevano al “repitu”, lamenti a cantilena misti a pianto da parte delle “prefiche” o “reputatrici”, donne professioniste specializzate in lamenti funebri, che inneggiavano alla gloria o a fatti successi al defunto e rammarico per la sua scomparsa. Così, con il fuoco purificatore, che portava via tutte le brutture della vita si concludeva questa baldoria, questa pazzia collettiva.
Sicuramente questo è il modo migliore per festeggiare il Carnevale; la festa non deve racchiudersi in una magnifica manifestazione con sfilate di carri costosissimi, dove partecipa la stampa e la televisione, avente come scopo esclusivamente il lucro e la pubblicità (vedi Carnevale di Viareggio). In quelle giornate si deve tornare bambini per dimenticare le cose brutte della vita e riacquistare quegli attimi di spensieratezza, quella risata facile, spontanea e genuina smarrita nel corso di una vita vuota, caotica e stressante. La scienza medica dice che questa è una buona terapia per tutti i mali psicosomatici (oggi, in qualche ospedale d’avanguardia, per i bambini ammalati c’è il clown per fini terapeutici).

 Purtroppo, forse per colpa della globalizzazione o del benessere o della emancipazione della donna, il carnevale a poco a poco a Castelvetrano si è ridotto e rinchiuso negli stretti spazi dei circoli con balli in vestito di convenienza. Negli anni ’70, con il subentrare delle discoteche anche questa manifestazione di divertimento si è molto ridotta. Quest’anno il nostro amato sindaco ha promesso di fare risvegliare il Carnevale riportandolo allo splendore degli anni che furono. In questi anni di vacche magre, che ci ricordano quelli del dopoguerra, tre giorni di “sdirri” ci fanno bene per dimenticare la disoccupazione, i malfatti della classe politica e le eccessive tasse appena pagate dalla classe più povera della popolazione.
Evviva Carnevale!.

 VITO MARINO

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