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mercoledì 27 febbraio 2013

LU UTTARU E LU VINU


“Lu uttaru” (il Bottaio) costruiva con legno di castagno o di rovere: “utti e stipi” (botti) di tutte le misure, “valliri, quarantini, carratuna, quartucci, tini, cisca (per il latte)”.
Castelvetrano è stata sempre una zona vinicola e una volta il vino andava in simbiosi con le botti di legno. Quando ero ragazzo mi divertivo a guardare a distanza il bottaio, mentre lavorava: vedevo colpire con la mazzotta il cerchio della botte e dopo un po’ sentivo il rumore. Un
proverbio dice: “un corpu a lu circu e un corpu a lu timpagnu”. Il bottaio a quei tempi era anche il tecnico del vino, il competente in materia, l’analista per prevenire e curare le alterazioni del mosto e del vino e per assicurare una buona vinificazione e provvedeva anche a“tramutari” (filtrare) il vino novello.
Qui di seguito riporto delle unità di misura che erano in uso fino a qualche decennio fa:

Una botte di mosto, corrispondeva a 59 misure, una misura corrispondeva a 10 litri; quindi una botte, che rappresentava una unità di misura, corrispondeva a 590 litri. 

Per quanto riguarda il vino le unità di misura erano le seguenti:

1 Quartucciu =  3/4 di litro

1 Valliri    =  da 1 lt. a 10 lt. (a forma schiacciata ai fianchi); i più  piccoli "li valliredda" si  portavano sul posto di lavoro per bere a garganella)

1 Quarantinu = 40 litri

1 Carrettu o carratu = litri 420 (rappresentava una unità di misura:  quanto vino si poteva trasportare (anche con recipienti vari) con un "traìnu" (apposito carro a 2 ruote per trasporto vino).

La tini era un contenitore di circa 100 litri e si usava come contenitore provvisorio per l’uva, il mosto o il vino nei momenti di bisogno.

Il “Carratuni  o stipa"  era un grande contenitore della misura richiesta dal   proprietario. 

Tutti i contenitori erano fatti rigorosamente in legno di castagno o di rovere; il secondo era eccezionale per dare, dopo la stagionatura, un alto grado e il caratteristico sapore di marsala al vino.

Intorno agli anni 40, la pigiatura dell’uva era fatta ancora con i piedi scalzi o con scarponi chiodati, nel "parmentu" (un locale con il pavimento in cemento ed una leggera pendenza verso il centro, per permettere al mosto di raccogliersi in un pozzetto). Un mio amico mi ha fatto vedere un tipo di scarpe molto pesanti con la suola di ferro, usate dal “pistaturi”. Queste calzature facilitavano il lavoro, ma aumentavano di molto la fatica. Quando il “parmentu” era molto vasto vi operavano molti pigiatori. I lavoratori giornalieri dovevano approfittare di questi lavori stagionali per potere sopravvivere a lunghi mesi senza lavoro, pertanto lavoravano contenti e cantavano, nonostante la fatica.

L'uva schiacciata si metteva in grosse "coffe" (contenitori fatti di palma nana intrecciata) e si procedeva alla torchiatura, per separare il mosto dalla vinaccia.

La pressa era formata da due travi robuste verticali fisse più due trasversali scorrevoli tramite una grossa vite elicoidale (il tutto in legno); sotto si sistemavano sette od otto "coffe" e si stringeva il tutto facendo girare la vite con una lunga trave spinta a mano.             

Il trasporto dell'uva dalla campagna al paese, o al baglio, avveniva con il solito carretto, spesso con la “casciata” tolta, per fare più spazio alla “tine”.

La fermentazione avveniva generalmente dentro una botte su cui era applicato "lu cupuni", un tappo di terracotta a forma un po’ conica, vuoto all'interno e bucherellato, che permette alla schiuma del mosto di "sbrumari" (fuoriuscire) e favorire nello stesso tempo l’aerazione del mosto evitando la fermentazione tumultuosa, che avrebbe potuto far guastare il vino in fase di formazione.

La pigiatura e la trasformazione in vino generalmente avveniva a cura del proprietario nei suoi locali, posti a  volte nei bagli della sua azienda agricola. 

Il vino siciliano di una volta era caratterizzato dal gusto eccezionale derivato dall’invecchiamento nelle botti di rovere o di castagno e dall'alto grado alcolico. Anche con il caldo del nostro clima, l'alcool impedisce ai batteri dell'aceto ed ai miceti della fioretta di trasformare il vino rispettivamente in acido acetico o acqua. Oggi, sotto il continuo controllo d’esperti enologi, con i numerosi prodotti chimici opportunamente aggiunti e con i refrigeratori, il vino da pasto si conserva bene, anche a basso grado alcolico.

Le botti erano poste in grandi magazzini ben arieggiati attraverso le larghe finestre e il tetto, che era coperto con tegole di terracotta.

L'alto grado alcolico si raggiungeva selezionando tipi d'uva autoctona, come "lu griddu", che riusciva a dare 24 gradi di zuccherino; inoltre, il vigneto non veniva mai innaffiato, mentre la vendemmia si effettuava ad ottobre anche inoltrato, per permettere la completa maturazione dell'uva.

Quando a causa di un’estate piovosa o poco calda, l'uva non dava il grado zuccherino necessario, per aumentarlo si doveva aggiungere del mosto concentrato (impropriamente detto “vinu cottu”) a cui spesse volte si aggiungevano dei baccelli di carruba, che conferivano al vino un aroma di marsala.

VITO MARINO

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