Quello che qui vi proponiamo è un ragionamento, ma un ragionamento importante, per diversi motivi. Primo, perché nelle cose di mafia si è sempre ragionato poco, in Italia, e detto tanto, anzi, assai. Ci sono molti mafiologi in giro, dai quali bisognerebbe stare alla larga, perché parlano senza aver mai davvero non solo studiato, ma anche “toccato” la mafia. Secondo, perchè di fronte ad un fenomeno complesso come quello mafioso, profondamente connaturato con la società italiana non ci si può fermare solo alla cronaca, ma bisogna usare, appunto la logica, come faceva Leonardo Sciascia, che è quello che ha reso pubblica e popolare la mafia in
Sicilia attraverso il suo racconto e la sua analisi. E rendere pubblica e popolare una storia è il primo passo per comprenderla.
La novità del momento sono le dichiarazioni di Totò Riina, il capo dei capi, colui che era ed è (cosa che in molti sottovalutano) ancora il capo della mafia, cioè il capo della cupola mafiosa secondo la riorganizzazione che lui stesso fece tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quando sterminò le famiglie avversarie in Sicilia occidentale, e non solo, strinse alleanze (con i Messina Denaro a Castelvetrano, ad esempio), scalò i vertici di Cosa nostra. Dopo il suo arresto, avvenuto nel 1993, la “Cupola” non si è più riunita, è stata falcidiata da importanti operazioni di polizia, non ha più potuto nominare un successore. Quando si dice che Matteo Messina Denaro è il capo di Cosa nostra, si dice una mezza verità, perché da un lato è sicuramente il boss più pericoloso, potente e spregiudicato ad essere presente nello scacchiere siciliano, ma dall’altro lato non ha mai ricevuto quella investitura formale che gli avrebbe permesso di avere l’autorità del capo anche a Palermo e fuori dal suo territorio (il Belice e la provincia di Trapani).
Le dichiarazioni di Totò Riina sono frutto di intercettazioni ambientali. Più videocamere lo hanno registrato mentre parlava durante l’ora d’aria, nel cortiletto a lui riservato del carcere di Opera, a Milano, con un boss della Sacra Corona Unita, Michele Lorusso.
Riina è al carcere duro, noto anche come “41 bis”. Si tratta di un regime carcerario introdotto negli anni 80 e poi applicato dopo le stragi del ’92 per i mafiosi più efferati, per spingerli magari a collaborare. Il trattamento prevede un colloquio mensile con i familiari, restrizioni nella libertà, il controllo della corrispondenza.
Ora, è normale che ad un detenuto del calibro di Riina, sottoposto al carcere duro, sia concessa l’ora d’aria in compagnia di un altro boss, con la possibilità magari di passare qualche ordine, tessere una relazione, fare girare una voce o un comando? Evidentemente no.
Chi è poi questo compagno di chiacchiere in libertà, questo Lorusso Alberto, 55 anni, che in tanti ormai spacciano come il capo della Sacra Corona Unità? E’ un delinquente, certo, uno che si è macchiato di diversi reati, dall’appartenenza mafiosa al traffico di droga all’omicidio, ma con la Sacra Corona Unita non ha mai avuto niente a che fare.
E allora, che sta succedendo? Semplice. A rigor di logica. Lorusso è stato messo appositamente in compagnia di Totò Riina per farlo parlare. C’è riuscito. Ha compiuto la sua missione. Ora è stato trasferito.
Da quando Riina e Provenzano sono stati arrestati, sono decine i casi di uomini delle istituzioni che hanno cercato di farli parlare. Da Piero Grasso fino a Beppe Lumia e Sonia Alfano. Ma quelli muti sono, e non parlano.
Lorusso è invece riuscito ad attirarsi le simpatie del boss, a quanto sembra, e farlo parlare a lungo (le intercettazioni formano un faldone di 100 pagine). E’ chiaro, allora, che Lorusso sapeva anche dove portare il discorso di Totò Riina: la trattativa. Immaginiamo che gli avranno detto questo: fallo parlare di quegli anni là, delle stragi, di cosa è successo negli anni ’90, prima che lo arrestassero.
Ora veniamo a lui, allo zio Totò. Il quale è stato, forse è ancora, una delle persone più potenti in Italia. Non intelligente, ma astuto e crudele. Uno capace di capire cosa si muove intorno e decidere subito cosa fare. Ecco, uno come Totò Riina avrà capito che Lorusso era inviato per farlo parlare. E si è lasciato andare. Ma, ovviamente, anche lui ha recitato un copione. Su Di Matteo, in particolare, l’anziano boss ha dato il meglio del suo repertorio, ed è facile capire perché. Tra le poche cose che Riina ha detto spontaneamente e convintamente nella sua vita ce n’è una in particolare: quando ha detto pubblicamente di essere stato utilizzato da altri, per compiere le stragi del ’92. Anzi, Riina lo dice chiaramente: Capaci è roba mia, Via D’Amelio no. Riina in quegli anni parlava con qualcuno, quel qualcuno lo ha utilizzato per i suoi fini, e in qualche modo lo ha incastrato. Riina ci è cascato. Non è stato il primo: le zone grigie del potere in Italia hanno sempre utilizzato la mafia come lavatoio. Quando alza la tensione su Di Matteo si piglia una piccola rivincita. Se lui minaccia Di Matteo, aumentano, nei confronti di chi indaga sulla “trattativa”, gli strumenti di difesa, l’attenzione dell’opinione pubblica. A scapito di chi invece alla trattativa non crede, e quel processo vuole ostacolare. E magari sono proprio coloro che i fili della Trattativa Stato – mafia in quegli anni l’hanno retta. Riina poteva lasciarsi andare a confidenze serie, rivelazioni, e fare contenti gli ingenui che hanno messo Lorusso a parlare con lui. Oppure poteva limitarsi a dire: Di Matteo e tutti gli altri sono dei quaquaraquà e non andranno mai da nessuna parte. Invece ci ha messo il carico da undici: minacce di morte, attentati da fare neanche si fosse ancora ai tempi del Grand Hotel Ucciardone, cose a mezza bocca per dire e non dire.
Un’altra cosa dice Riina a Lorusso. E stavolta davvero parla ai suoi interlocutori storici. Che non sono, sia chiaro, quelli che hanno messo Lorusso a parlare con lui, sono gli altri, i superiori. Riina demolisce il suo pupillo, Matteo Messina Denaro. I contenuti di quelle dichiarazioni li abbiamo visti l’altra volta, e sono sorprendenti, sapendo quanto fossero legati i due. Potrebbero essere, quelle dichiarazioni, un messaggio in codice allo stesso Matteo, ma c’è da escluderlo. Riina sa di essere ripreso, sa che altri lo ascoltano, sa che le sue dichiarazioni non per forza verranno rese pubbliche, e magari a Messina Denaro non arriveranno mai. Ma sa che chi deve capire capisce.
Parla proprio a loro, a “quelli”, ai suoi interlocutori. E fa una cosa vecchia come la mafia, una cosa che ha fatto sempre la mafia: “posa” Matteo Messina Denaro, ne prende le distanze, lo rinnega. I capimafia hanno fatto sempre così, quando qualcuno non era più utile alla causa. E lui questo fa, rinnegando Matteo Messina Denaro, che è un suo subalterno, ancora oggi, Riina dà un messaggio preciso: potete prenderlo, non ci interessa più.
Non è un caso che queste intercettazioni escono fuori ora, quando con l’operazione “Eden” è stata smantellata la rete di parenti e collaboratori più stretta dell latitante Matteo Messina Denaro. Il boss di Castelvetrano è oggi davvero solo, e il suo capo l’ha scaricato. Perchè la trattativa non è mai finita. E’ cominciata con la nascita della mafia, negli ultimi anni dell’800, è passata dal fascismo, dallo sbarco degli Alleati, da Giuliano, da Andreotti, dalle stragi degli anni ’90, e continua ancora oggi. Gli interlocutori di Riina hanno chiesto la testa di Messina Denaro. Lui ha dato l’ok, tutte le protezioni istituzionali di cui gode Messina Denaro (perchè è chiaro, per Riina come per Provenzano come per lui che una latitanza così scandalosamente lunga non può non essere protetta da qualcuno nelle istituzioni) a poco a poco si scioglieranno. Cosa vuole in cambio Riina non lo sappiamo. Magari semplicemente essere lasciato in pace. Ma lo vederemo nei prossimi giorni.
fonte: marsala.tp24.it
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