Alle 3 e otto minuti del 15 gennaio 1968 si ode un lungo e spaventoso boato, scoppi, bagliori rossastri, crepitii, stridii, tonfi assordanti ed infine un gran polverone che avvolge tutto l’epicentro del sisma, Gibellina Poggioreale, Salaparuta e Montevago non ci sono più.
E’ trascorso pressoché inosservato il 45° anniversario del terribile terremoto del Belìce. di magnitudo 6,4, che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 danneggiò Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi, Santa Margherita di Belìce, e distrusse Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago. Le vittime furono 370, un migliaio i feriti e circa 70 000 i senzatetto.
In Italia è stato uno dei primi terremoti tristemente celebri per l’impreparazione logistica. Forse perché la Sicilia non è stata mai considerata nel suo giusto valore, il sisma venne sottovalutato e molti quotidiani citarono nella cronaca di pochi feriti e di qualche casa lesionata. Ventiquattro ore dopo il violento sisma molti collegamenti con i paesi colpiti erano ancora impossibili. Ciò rese ancora più confusa l’opera dei soccorritori, già poco coordinati, e gli interventi furono del tutto frammentati.
Il terremoto mise drammaticamente a nudo l’impreparazione dello Stato di fronte ad una catastrofe del genere e si conobbe lo stato di arretratezza in cui si viveva in quelle zone. Le popolazioni di quei paesi erano composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, poiché i giovani e gli uomini erano già da tempo emigrati in cerca di lavoro. Le abitazioni erano fatiscenti costruite ancora in tufo, o in pietra e fango, che crollarono senza scampo.
Anche i successivi e tardivi stanziamenti economici per la ricostruzione diedero luogo ad opere faraoniche, spesso inutili, quali la città di Gibellina, creata come simbolo della ricostruzione in quanto progettata da famosi architetti e artisti, ma senza prospettiva di ripresa economica.
VITO MARINO
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