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mercoledì 16 gennaio 2013

IL TERREMOTO DEL BELICE


E’ il 14 Gennaio 1968. Nei paesi colpiti dal sisma si sta svolgendo la vita di sempre. È domenica, le donne, finita la messa, si  attardano a discutere con amiche e parenti; gli uomini oziano nei quadrivi o nei bar a consumare qualche caffè. A nessuno passa per la testa che questo giorno potrebbe essere l'ultimo. Alle ore 13,30. ora di pranzo, si ode un gran rumore indefinito, un fracasso, che si ripete alle ore 14,07. Le case ondeggiano, si odono profondi boati e scricchiolii terrorizzanti. Cade qualche tetto, qualche cornicione, i muri si lesionano. Dappertutto un odore acre e disgustoso d’acqua sulfurea, molti ponti sono lesionati ed alcuni irrimediabilmente. Fuga e terrore fra la popolazione interessata dal sisma.
Alle 3 e otto minuti del 15 gennaio 1968 si ode un lungo e spaventoso boato, scoppi, bagliori rossastri, crepitii, stridii, tonfi assordanti ed infine un gran polverone che avvolge tutto l’epicentro del sisma, Gibellina Poggioreale, Salaparuta e Montevago non ci sono più.
E’ trascorso pressoché inosservato il 45° anniversario del terribile terremoto del Belìce. di magnitudo 6,4, che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 danneggiò Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi, Santa Margherita di Belìce, e distrusse Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago. Le vittime furono 370, un migliaio i feriti e circa 70 000 i senzatetto.
In Italia è stato uno dei primi terremoti tristemente celebri per l’impreparazione logistica. Forse perché la Sicilia non è stata mai considerata nel suo giusto valore, il sisma venne sottovalutato e molti quotidiani citarono nella cronaca di pochi feriti e di qualche casa lesionata. Ventiquattro ore dopo il violento sisma molti collegamenti con i paesi colpiti erano ancora impossibili. Ciò rese ancora più confusa l’opera dei soccorritori, già poco coordinati, e gli interventi furono del tutto frammentati.

Il terremoto mise drammaticamente a nudo l’impreparazione dello Stato di fronte ad una catastrofe del genere e si conobbe lo stato di arretratezza in cui si viveva in quelle zone. Le popolazioni di quei paesi erano composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, poiché i giovani e gli uomini erano già da tempo emigrati in cerca di lavoro. Le abitazioni erano fatiscenti costruite ancora in tufo, o in pietra e fango, che crollarono senza scampo.
Anche i successivi e tardivi stanziamenti economici per la ricostruzione diedero luogo ad opere faraoniche, spesso inutili, quali la città di Gibellina, creata come simbolo della ricostruzione in quanto progettata da famosi architetti e artisti, ma senza prospettiva di ripresa economica. 
VITO MARINO

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