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LU GHIACCIARU -
Nel dopoguerra, in mancanza dei frigoriferi e
refrigeratori, il ghiaccio, posto nelle ghiacciaie, era l’unica fonte che
poteva rinfrescare le bevande o conservare i cibi.
Ricordo
che tutti i giorni, nelle ore calde del tardo mattino estivo, passava Don
Angelo, un ambulante grasso e sempre sudato; egli spingeva a mano un carrettino
su cui era collocata una ghiacciaia.
“Ghiaaacciooo”
con la sua voce da tenore lirico egli così annunciava il suo passaggio.
A
Castelvetrano la fabbrica del ghiaccio era di proprietà di Francesco Balano e
si trovava nella circonvallazione di Via Diaz; il grossista Titone comprava
dalla fabbrica e lo vendeva alle botteghe, ai bar e al venditore ambulante. Don
Angelo con un uncino avvicinava la lastra di ghiaccio, contenuta nella
ghiacciaia, e la spezzettava secondo la richiesta del cliente con la punta di
una vecchia lima.
In
quel periodo le persone benestanti tenevano in casa la ghiacciaia, che
rifornivano giornalmente di ghiaccio
per tenere al fresco frutta e bibite.
La
ghiacciaia aveva una struttura in legno dalle dimensioni di un piccolo
frigorifero. La doppia parete in compensato (multistrato) era riempita con
“muscagghi” (trucioli di legno), che facevano da isolante termico. L’interno
era rivestito, per proteggerlo e per impermeabilizzarlo, con lastre di zinco
Era diviso in scomparti, con un ripiano riservato al ghiaccio da porre
giornalmente.
In
alternativa, i meno abbienti ottenevano l’acqua fresca con “lu bummuliddu di
Sciacca” di terracotta, che aveva la proprietà di rinfrescare l’acqua
contenuta; si trattava di una terracotta porosa che lasciava traspirare delle
goccioline d’acqua, che, evaporando, specialmente col vento caldo, assorbivano
il calore dell’acqua, che diventava fresca. L’acqua fresca naturale si poteva
trovare nel pozzo o nelle cisterne, allora ancora in funzione in moltissime
abitazioni. Molte persone “calavanu” il melone, messo dentro un sacco, nel
pozzo e lo tiravano fuori, già fresco, al momento di consumarlo.
VITO
MARINO
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