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martedì 19 febbraio 2013

Continuano i racconti di Vito Marino."LI CARCARI"

 LI CARCARI

Fino a pochi decenni fa operavano a Castelvetrano “li carcari” (le fornaci), dove  degli abili artigiani  trasformavano, attraverso la cottura, la pietra calcarea (carbonato di calcio) in calce viva (ossido di calce) per l'edilizia, mentre la pietra di gesso (solfato di calcio biidratato) diventava gesso per l'edilizia semiidratato.
Esse si presentavano a forma di torri circolari; per resistere alle alte temperature venivano rivestite all’interno con mattoni di terracotta, mentre
per neutralizzare le spinte delle forze verso l’esterno, venivano realizzate nel sottosuolo con la sola estremità superiore fuori del terrapieno.La procedura di cottura era uguale sia per il gesso che per la calce; le pietre più grosse si sistemavano per prima a forma di volta lasciando sotto lo spazio per introdurvi la legna da bruciare, quelle più piccole si sistemavano sopra.

Alla sommità, sistemata a volta, le buche e gli spazi vuoti rimasti si riempivano con calce spenta o gesso in polvere ( secondo il tipo di pietra da cuocere), lasciando soltanto delle aperture laterali per la fuoriuscita del fumo; d'inverno si sistemavano delle tegole per proteggere il tutto dalla pioggia.

Il fuoco veniva alimentato ininterrottamente per diversi giorni (con un minimo di tre giorni) in rapporto  alla grossezza del forno e quindi alla quantità di pietra da cuocere.  Come combustibile si usavano prodotti locali della campagna, come fascine di legna di ulivo, ma anche tronchi, vinaccia e sansa d'olive. La temperatura poteva raggiungere i 120 - 180ø. La carbonella che restava, veniva spenta e venduta  per il riscaldamento domestico. Le pietre già "cotte", appena raffreddate, si toglievano manualmente dalla parte superiore.

Le fornaci per la calce erano concentrate in Via Marsala, di fronte al cimitero; io mi ricordo quella di Clemente e quella di Giurintano.

Oggi questi vecchi forni sono scomparsi perché tecnicamente superati ed antieconomici.


Tracce di una carcara in territorio di Milena
Per trasformare la calce viva in calce spenta (utilizzata ancora oggi in edilizia), il muratore immergeva le pietre di calce già cotte in vasche o fusti pieni d'acqua; come reazione chimica avveniva un notevole aumento della temperatura ed emanazione di vapori. Oggi la calce per l’edilizia si vende già pronta per l’uso (grassello),  in sacchi di plastica; per l’agricoltura, si vende in polvere in sacchi di carta. 

Le pietre di gesso erano di produzione locale, le cave si trovavano "a la muntagna" ai confini del territorio di Castelvetrano con quello di Salemi.

Mi risulta che "li issarii" (le fabbriche di gesso), fino agli anni 30 circa erano di una importanza vitale per l'edilizia. Il gesso si usava per gli intonaci interni delle case, come malta per costruire forni a legna e di "cufulara" (focolare); inoltre per la costruzione di soffitte a volta "dammusa", o di soffitti piatti fatti con gesso e graticci di canne tagliate a strisce e intrecciate a griglia, per costruire muretti divisori con delle canne ben diritte, allineate e intonacate col gesso. Per certi versi, il suo uso più importante era affidato a degli artigiani gessai, veri artisti, che ornavano di stucchi gli interni dei palazzi signorili e, principalmente le chiese.

Ricordo che le fabbriche di gesso fino agli anni ’50 circa erano concentrate, secondo la tradizione medievale delle corporazioni, nella Via Pietro Luna, che tutti chiamavano "la strata di li issara". Quando ero ragazzo erano in declino e sul punto di chiudere; ormai il cemento e una architettura lineare, sorta nel dopoguerra, le hanno mandate in pensione.

Le pietre di gesso già cotte erano ridotte in polvere tramite un rudimentale mulino costituito da una grossa ruota di pietra, che girando le schiacciava. Il mulino era azionato da un asino, che all’occorrenza era usato per trainare un carro per le consegne a domicilio.

Non so dare una spiegazione, ma quando in paese succedeva qualcosa d’eccezionale e imprevedibile si usava dire: "E chi morsi lu sceccu di lu issaru?"   (è morto l'asino del gessaio?).

VITO MARINO

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