con una lunga e robusta fune, trattenuta al capo da un gruppo di uomini.
Il toro, aizzato dai giocatori con drappi rossi e dalle urla
sfrenate del pubblico, messo al sicuro dietro uno steccato, rincorreva
minaccioso il giocatore.
Costui quando sentiva di essere raggiunto e di non poter
schivare il corpo dell’animale, si salvava scendendo lesto in un fosso scavato
precedentemente nel mezzo della piazza.
Il più bravo dei
concorrenti non era solo colui che con movimenti agili e lesti scansava i colpi
del toro senza scendere nel rifugio, ma chi invece riusciva a cavalcarlo.Da tempo questa specie di corrida è stata abbandonata e a memoria d’uomo è ricordato un carnevale fatto di maschere, balli e scherzi.
Gli echi della guerra
e gli effetti devastanti sugli edifici e sull’economia della città erano ancora
visibili ma la gente, finalmente libera dalla dittatura, aspettava con ansia il
Carnevale per scrollarsi di dosso gli orrori e i pericoli vissuti, le ristrette
condizioni economiche, per dimenticarsi di essere dei miseri mortali e per
godersi quegli attimi di spensieratezza e d’allegria, che la festa forniva in
maniera collettiva, genuina e gratuita.
Si trattava, infatti,
di una povera manifestazione dal punto di vista scenografico ma l’entusiasmo e
l’allegria coinvolgeva lo stesso tutta la popolazione. Pochi potevano comprarsi
il domino; la maggior parte portava delle maschere improvvisate e povere, fatte
con vecchi vestiti riciclati, ma spontanee, che suscitavano allegria e risata;
Dopo tanti lunghi secoli, sembrava proprio che tutti rispettassero il “carpe
diem” (cogli il giorno) contenuto nei “canti carnascialeschi” di Lorenzo Dei
Medici: –« Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! »
“Chi vuol esser lieto sia di doman non c’è certezza”.
Le maschere, che raffiguravano personaggi dei vari ceti sociali, erano rappresentate in maniera burlesca, per mettere in evidenza i difetti della società; forse si rifacevano ai “Saturnali”, un ciclo di festività religiose, risalente all’antica Roma, quando l’ordine sociale veniva sovvertito e gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente uomini liberi, e si potevano comportare come tali.
Tornando alla nostra
festa, quando un mascherato incontrava un conoscente, lo spingeva, gli ballava
attorno e gli chiedeva: “Cu sugnu?”. Generalmente era una donna che, protetta
dall’anonimato si divertiva a stuzzicare un uomo.
I petardi erano molto
usati ma, in una civiltà maschilista erano lanciati in direzione delle donne,
procurando spesso bruciature alle calze e alle gambe; la gioia di chi lanciava
i botti era quello di sentire le donne gridare per lo spavento. Nelle strade
principali si svolgevano delle vere battaglie a base di botti lanciati fra
squadre rivali.
I ragazzi si
consolavano con “l’assicuta fimmini” e “li sparapauli”; i secondi erano delle
cartine rosse con tanti piccoli rigonfiamenti, contenenti polvere da sparo;
bastava picchiarvi sopra un piccolo sasso per farle esplodere. “Li piticchi”
(coriandoli) e le stelle filanti c’erano anche allora; molto in voga era “lu
fetu” (la puzzolina), a volte buttata in classe dagli alunni, per far sospendere
la lezione.
Molto praticati erano
gli scherzi, ma erano accettati senza offesa.In Sicilia, nel linguaggio parlato, per rafforzare ogni discorso era molto in uso il proverbio. Anche durante il Carnevale si usavano tanti proverbi: uno diceva “Carnevali ogni scherzu vali, cu s’affenni è un maiali”; un altro diceva: “cu è fissa Carnevali o cu ci va appressu?”, un altro: “Pi Sant’Antoniu (17 gennaio) mascari e soni; pi San Bastianu (20 gennaio) mascari ‘n chianu”.
“Doppu li Tri Re olé
olé”, si diceva! E difatti, dopo “li Tri Re” (l’Epifania), già alcune maschere
giravano per le strade con le loro voci artefatte riscaldando e preparando
l’atmosfera per la grande festa.
In quei giorni si
ballava soltanto in casa di amici “a parti di casa” (presso i privati), “dunni
si teni sonu” (dove si suona).
I cinque giovedì
antecedenti al Carnevale erano molto attesi da quegli innamorati che, con i
consensi dei rispettivi genitori, avevano le buone intenzioni di fidanzarsi. –
Il primo giovedì veniva chiamato “dei vicini”, in quel giorno si organizzavano
dei balli in casa della ragazza e fra gli invitati c’era anche il ragazzo
pretendente e i rispettivi familiari. – Nel secondo, detto “degli amici”, si
ballava di nuovo; ma, se tutto procedeva bene fra le due famiglie, avveniva
anche la “spiegazione” cioè l’intesa per un fidanzamento ufficiale. – Il terzo,
detto “dei parenti”, oltre a ballare si poteva festeggiare anche l’entrata
ufficiale al fidanzamento (si era già parenti).- Nel quarto, detto “delle
comari”, i consuoceri diventavano automaticamente anche compari e comari; ormai
i due fidanzati potevano stringersi fra le braccia durante il ballo. – Il
quinto era il “giovedì grasso”, il più conosciuto e atteso, perché dava inizio
alla baldoria di piazza.
Caso strano, ma in
una società maschilista le donne, anche se sposate, in questo giorno, appunto
perché grasso potevano permettersi certe libertà, come parlare in maniera poco
pulita, fare scherzi agli uomini, ballare con un altro uomo, giocare agli
indovinelli e scioglilingua “vastasi”.
In quel periodo, la
festa era molto attesa da tutti, anche per fare grandi mangiate. Le carni di
maiale e di tacchino, cucinate al ragù con la “sarsa sicca” (vedi argomento), e
la “pasta di casa” fatta a “tagghiarini” o “maccarruna busiati” erano i piatti
più consumati.
In merito un
proverbio diceva: “Pi cannalivaru si sì manciuni, mancia sosizza e maccarruna”,
pietanze invece vietate il giorno di Capodanno (le cose rotonde, compresi
cannoli e involtini) perché portavano male. Per portare allegria, il vino si
consumava a fiumi.
Ricordo che da quel
giorno una gran folla si riversava per le strade vestita in maschera e si
divertiva a più non posso con scherzi e balli. Si ballava presso tutti i
circoli ricreativi e culturali, ai cinema: Selinus, Capitol, Palme e Marconi,
alla sala bigliardi, ma si ballava anche “a lu chianu” (Piazza Garibaldi,
piazza per antonomasia), con l’orchestrina che suonava.
Parallelamente agli
amori umili e sinceri dei giovani popolani, che aspettavano il Carnevale per la
realizzazione dei propri sogni, c’erano gli amori clandestini fra uomini maturi
sposati, con altrettante donne compiacenti che, approfittando dell’anonimato
garantito dalla maschera, realizzavano i loro sogni illegittimi.
Li “sdirri”, forse
dal francese dernier, erano gli ultimi tre giorni di Carnevale:
“sdirriduminica, sdirrilunniri, sdirrimartiri”; essi rappresentavano il culmine
della festa. Un proverbio siciliano dice in merito: “tuttu l’annu cu cu voi e
li sdirri cu li toi”.La festa si concludeva, come avviene ancora oggi, con “lu nannu e la nanna” bruciati “a lu chianu”. Infatti, in Piazza Garibaldi si leggeva “lu tistamentu di lu nannu” e venivano bruciati due fantocci di cartapesta preparati ogni anno, fino al 1967, da “Don Pippinu Vaiana l’apparaturi”.
Caratteristici erano
i piagnistei “di li niputi di lu nannu”. Si trattava di finti lamenti che si
rifacevano al “repitu”, lamenti a cantilena misti a pianto da parte delle
“prefiche” o “reputatrici”, donne professioniste specializzate in lamenti
funebri, che inneggiavano alla gloria o a fatti successi al defunto e rammarico
per la sua scomparsa. Così, con il fuoco purificatore, che portava via tutte le
brutture della vita si concludeva questa baldoria, questa pazzia collettiva.
Sicuramente questo è
il modo migliore per festeggiare il Carnevale; la festa non deve racchiudersi
in una magnifica manifestazione con sfilate di carri costosissimi, dove
partecipa la stampa e la televisione, avente come scopo esclusivamente il lucro
e la pubblicità (vedi Carnevale di Viareggio). In quelle giornate si deve
tornare bambini per dimenticare le cose brutte della vita e riacquistare quegli
attimi di spensieratezza, quella risata facile, spontanea e genuina smarrita
nel corso di una vita vuota, caotica e stressante. La scienza medica dice che
questa è una buona terapia per tutti i mali psicosomatici (oggi, in qualche
ospedale d’avanguardia, per i bambini ammalati c’è il clown per fini
terapeutici).
Purtroppo, forse per
colpa della globalizzazione o del benessere o della emancipazione della donna,
il carnevale a poco a poco a Castelvetrano si è ridotto e rinchiuso negli
stretti spazi dei circoli con balli in vestito di convenienza. Negli anni ’70,
con il subentrare delle discoteche anche questa manifestazione di divertimento
si è molto ridotta. Quest’anno il nostro amato sindaco ha promesso di fare
risvegliare il Carnevale riportandolo allo splendore degli anni che furono. In
questi anni di vacche magre, che ci ricordano quelli del dopoguerra, tre giorni
di “sdirri” ci fanno bene per dimenticare la disoccupazione, i malfatti della
classe politica e le eccessive tasse appena pagate dalla classe più povera
della popolazione.
Evviva Carnevale!.
VITO MARINO
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