Castelvetrano
è stata sempre una zona vinicola e una volta il vino andava in simbiosi con le botti di legno. Quando ero ragazzo mi divertivo a guardare a distanza il bottaio, mentre lavorava: vedevo colpire con la mazzotta il cerchio della botte e dopo un po’ sentivo il rumore. Un
proverbio dice: “un corpu a lu circu e un corpu a lu timpagnu”. Il bottaio a quei tempi era anche il tecnico del vino, il competente in materia, l’analista per prevenire e curare le alterazioni del mosto e del vino e per assicurare una buona vinificazione e provvedeva anche a“tramutari” (filtrare) il vino novello.
Qui
di seguito riporto delle unità di misura che erano in uso fino a qualche
decennio fa:
Una
botte di mosto, corrispondeva a 59 misure, una misura corrispondeva a 10 litri ; quindi una
botte, che rappresentava una unità di misura, corrispondeva a 590 litri .
Per
quanto riguarda il vino le unità di misura erano le seguenti:
1
Quartucciu = 3/4 di litro
1
Valliri = da 1 lt. a 10 lt. (a forma schiacciata ai
fianchi); i più piccoli "li
valliredda" si portavano sul posto
di lavoro per bere a garganella)
1
Quarantinu = 40 litri
1
Carrettu o carratu = litri 420 (rappresentava una unità di misura: quanto vino si poteva trasportare (anche con
recipienti vari) con un "traìnu" (apposito carro a 2 ruote per
trasporto vino).
La
tini era un contenitore di circa 100 litri e si usava come contenitore
provvisorio per l’uva, il mosto o il vino nei momenti di bisogno.
Il
“Carratuni o stipa" era un grande contenitore della misura
richiesta dal proprietario.
Tutti
i contenitori erano fatti rigorosamente in legno di castagno o di rovere; il
secondo era eccezionale per dare, dopo la stagionatura, un alto grado e il
caratteristico sapore di marsala al vino.
Intorno
agli anni 40, la pigiatura dell’uva era fatta ancora con i piedi scalzi o con
scarponi chiodati, nel "parmentu" (un locale con il pavimento in
cemento ed una leggera pendenza verso il centro, per permettere al mosto di
raccogliersi in un pozzetto). Un mio amico mi ha fatto vedere un tipo di scarpe
molto pesanti con la suola di ferro, usate dal “pistaturi”. Queste calzature
facilitavano il lavoro, ma aumentavano di molto la fatica. Quando il “parmentu”
era molto vasto vi operavano molti pigiatori. I lavoratori giornalieri dovevano
approfittare di questi lavori stagionali per potere sopravvivere a lunghi mesi
senza lavoro, pertanto lavoravano contenti e cantavano, nonostante la fatica.
L'uva
schiacciata si metteva in grosse "coffe" (contenitori fatti di palma
nana intrecciata) e si procedeva alla torchiatura, per separare il mosto dalla
vinaccia.
La
pressa era formata da due travi robuste verticali fisse più due trasversali scorrevoli
tramite una grossa vite elicoidale (il tutto in legno); sotto si sistemavano
sette od otto "coffe" e si stringeva il tutto facendo girare la vite
con una lunga trave spinta a mano.
Il
trasporto dell'uva dalla campagna al paese, o al baglio, avveniva con il solito
carretto, spesso con la “casciata” tolta, per fare più spazio alla “tine”.
La
fermentazione avveniva generalmente dentro una botte su cui era applicato
"lu cupuni", un tappo di terracotta a forma un po’ conica, vuoto
all'interno e bucherellato, che permette alla schiuma del mosto di
"sbrumari" (fuoriuscire) e favorire nello stesso tempo l’aerazione
del mosto evitando la fermentazione tumultuosa, che avrebbe potuto far guastare
il vino in fase di formazione.
La
pigiatura e la trasformazione in vino generalmente avveniva a cura del
proprietario nei suoi locali, posti a
volte nei bagli della sua azienda agricola.
Il
vino siciliano di una volta era caratterizzato dal gusto eccezionale derivato
dall’invecchiamento nelle botti di rovere o di castagno e dall'alto grado
alcolico. Anche con il caldo del nostro clima, l'alcool impedisce ai batteri
dell'aceto ed ai miceti della fioretta di trasformare il vino rispettivamente
in acido acetico o acqua. Oggi, sotto il continuo controllo d’esperti enologi,
con i numerosi prodotti chimici opportunamente aggiunti e con i refrigeratori,
il vino da pasto si conserva bene, anche a basso grado alcolico.
Le
botti erano poste in grandi magazzini ben arieggiati attraverso le larghe
finestre e il tetto, che era coperto con tegole di terracotta.
L'alto
grado alcolico si raggiungeva selezionando tipi d'uva autoctona, come "lu
griddu", che riusciva a dare 24 gradi di zuccherino; inoltre, il vigneto
non veniva mai innaffiato, mentre la vendemmia si effettuava ad ottobre anche
inoltrato, per permettere la completa maturazione dell'uva.
Quando
a causa di un’estate piovosa o poco calda, l'uva non dava il grado zuccherino
necessario, per aumentarlo si doveva aggiungere del mosto concentrato
(impropriamente detto “vinu cottu”) a cui spesse volte si aggiungevano dei
baccelli di carruba, che conferivano al vino un aroma di marsala.
VITO
MARINO
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