Immagino che, alla luce delle ultime notizie sulle condizioni di salute di Bernardo Provenzano, molti degli uomini e delle donne che si occupano o semplicemente hanno a cuore i diritti dei detenuti, siano abbastanza indignati per il fatto che un povero vecchio, indipendentemente dal fatto che sia uno dei boss mafiosi più sanguinari, stia per morire chiuso in una cella, malato e in totale isolamento.
Io ho lavorato per un anno in un carcere del
Veneto: tenevo, insieme ad un valido cronista, un corso di giornalismo in una delle sezioni più difficili, quella dei “sex offenders”. E lì ho conosciuto proprio quegli uomini e quelle donne: so che sono motivati da uno spirito di grande umanità. Per questo immagino il loro stato d’animo nell’assistere a questi ultimi accadimenti e in parte li capisco.
È bene precisare a loro, e a tutti noi, che i responsabili di tutto quello che sta accadendo a Bernardo Provenzano non sono i magistrati di sorveglianza, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i direttori delle carceri e giù a scendere. Anche se può sembrare assurdo per il comune sentire, le condizioni fisiche di Provenzano sono state, fino a prima dell’ultima caduta, compatibili con il regime di detenzione carceraria: quando egli infatti ha necessitato di maggiore assistenza sanitaria, è stato trasferito in ospedale per poi fare ritorno, una volta “guarito”, in galera. Così è sempre stato in questi anni.
Chi lo sta uccidendo dunque non sono gli uomini e le leggi dello Stato, ma le persone a lui molto vicine, quelle che hanno convinto il vecchio boss a tenere la bocca chiusa proprio quando era in procinto di collaborare con la giustizia, come dimostrato negli incontri avuti con i parlamentari Sonia Alfano e Beppe Lumia. Alla proposta di pentirsi, avanzata dai due politici che da sempre si occupano di mafia, il padrino (dimostrando perfetta lucidità) avrebbe risposto “Sì, ma i miei figli non devono andare al macello”. E dopo che Alfano e Lumia gli avrebbero offerto rassicurazioni in termini di “serietà dei magistrati”, Provenzano avrebbe concluso: “Fatemici parlare (con i figli, Ndr), e poi sarà la volontà di Dio”.
Se avesse collaborato, stando alla legge sui benefici concessi ai collaboratori di giustizia, certamente avrebbe lasciato quantomeno il 41 bis e avrebbe potuto finire la sua vita in modo dignitoso, magari accanto ai familiari: possibilità che egli non ha mai lasciato ai parenti delle sue vittime.
E invece no. Qualcuno lo ha convinto a stare zitto, a rimanere in galera, a costo di spaccarsi la testa in una delle sue quotidiane cadute. Qualcuno lo ha pregato di tacere, di morire come un cane senza dar fastidio. Probabilmente glielo hanno chiesto come atto di estremo amore.
Chiedo a suo figlio Angelo, così indignato per le condizioni di detenzione del padre, se pensa che così l’”onore” della famiglia sia salvo. Io, che pur figlio di mafioso non sono, avrei lottato con le unghie e con i denti per far uscire mio padre dall’inferno del 41 bis, lo avrei convinto a rinunciare alla sua idiota omertà. Non sarei andato in tv a farfugliare velate minacce e ad usare un vocabolario di stampo mafioso ormai vetusto, ma sarei andato da lui a chiedergli di tornare da noi, in qualunque modo.
Non so quanto vivrà Provenzano. Non so dove morirà. Nessuno gli negherà il trattamento sanitario e detentivo adeguato alle sue condizioni, perché i diritti sono e devono essere uguali per tutti, anche per chi non ha mai rispettato quelli degli altri. Ma se fosse mio padre a me non basterebbe. Forse c’è ancora tempo, forse, se un briciolo di affetto familiare in quel contesto è mai esistito, potrebbe emergere ora, alla vigilia di questo Natale che per loro, falsi cattolici rinnegati dalla Chiesa, ha un significato ancestrale.
Collaborare per avere un fine vita meno amaro e meno solo non è un ricatto, è una possibilità.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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