Una volta l’economia della nostra città era basata sull’agricoltura e sull’artigianato. Le botteghe artigianali, infatti, erano numerose e per il basso tenore di vita di quei tempi, un bravo artigiano, avendo voglia di lavorare sodo, guadagnava bene.
Dentro la bottega, la gerarchia fra i lavoratori era la seguente:
- “Lu mastru” - Con la sua esperienza e bravura nel mestiere era in grado di portare a termine i capolavori artigianali di quei tempi.
- “Lu giuvini” poteva essere bravo anche lui nel lavoro ma doveva sottostare alle disposizioni impartite dal principale e dal maestro.
La figura forse più importante, anche se nell’ambito della bottega contava poco, era quella del “picciottu” (il garzone tuttofare, che oggi avremmo chiamato apprendista). Costui incominciava ad andare “a lu mastru” (a lavorare, ma anche ad apprendere il mestiere) all’età di sei anni circa durante le vacanze scolastiche e nelle ore libere dopo aver svolto i compiti di scuola.
La bottega d’artigiano di quei tempi rappresentava anche la scuola professionale per l’apprendistato. Lu picciottu, eseguendo qualche piccolo lavoro, ma principalmente guardando le varie fasi della lavorazione, a poco a poco, fra “un timpuluni e ‘na carcagnata ‘n culu” (uno scapaccione ed una pedata nel sedere) per ogni piccolo sbaglio, imparava il mestiere. La cultura di quei tempi considerava le batoste un mezzo didattico infallibile per insegnare ai ragazzi l’educazione e l’apprendimento. Si soleva dire, infatti, “l’arvulu s’addrizza quannu è nicu”.
Per temprare il corpo, e da adulto sopportare bene le dure fatiche del mestiere, si affidavano loro i lavori più pesanti. Lu principali, come compenso per le sue prestazioni, la domenica mattina gli dava “la simanata”, una misera paga settimanale.
Ricordo ancora una specie di filastrocca che tutti gli apprendisti sapevano a memoria:
- Principali vossia lu sapi
si travagghiu oppuru no;
s’un mi duna la simanata,
lunnirìa ‘un ci vegnu cchiù.
L’apprendista, pertanto, raggiunta l’età di 16 - 18 anni circa, poteva diventare “giuvini” e, rientrando dal servizio militare, poteva essere riassunto come “mastru”; in alternativa, poteva aprire bottega e lavorare per conto proprio.
Per i muratori c’era anche “lu capu mastru”, che generalmente coincideva con “lu principali”. Costui racchiudeva i mestieri di muratore, costruttore, ingegnere ed architetto, nel senso che era nelle condizioni di progettare un edificio, eseguirne una solida costruzione, tutte le rifiniture interne ed esterne ed arricchire il prospetto con abbellimenti in rilievo vari, fra cui cornici e fiori.(reminescenze dello stile liberty).
Costui, per mostrare la sua professionalità, dava gli ultimi ritocchi al lavoro già ultimato dal “mastru”, anche se non erano necessari; questa azione era chiamata: “Lu corpu di lu mastru”.
Fra il proprietario dello stabile, dove si svolgevano i lavori, ed il “mastru”, c’erano spesso delle divergenze di vedute sul modo d’eseguire certi lavori. Un proverbio in merito dava ragione al proprietario e sentenziava: - “Lu mastru è mastru, ma lu patroni è capumastru”.
Inoltre, c’era “la mezza cazzola”, un manovale che restava sempre tale, perché poco sveglio ad apprendere il mestiere.
Una volta il vocabolo “picciottu” aveva il significato più vasto della parola; infatti significava anche protagonista, persona di una certa importanza. Nelle pellicole cinematografiche gli spettatori classificavano i personaggi principali in: “lu picciottu, la picciotta e lu trarituri”. Nell’impresa dei mille, Garibaldi ha conquistato la Sicilia per merito dei picciotti, cioè di quei personaggi protagonisti, che hanno dato se stessi per una causa da loro giudicata giusta in quel momento storico.
A comprova che picciottu non significa solo ragazzo o giovane, una persona anziana quando si rivolge ai suoi coetanei, li chiama ancora picciotti.
Vito Marino
Chiaro e semplice. Mi è stato molto utile per la messa a punto di una poesia sulla vita di emigrante siciliano alla quale sto lavorando.
RispondiEliminaOrazio Celentano - Napoli